Biografie svelate – Irma Bandiera

(Ad Alta Voce 2025, testo di Alberto Alvisi,  lettura di Roberta Martelli e  Alberto Alvisi)

DIALOGO TRA ENA FRAZZONI E IRMA BANDIERA

(Ena) Ciao Mimma

(Irma) Ciao Nicoletta

(Ena) Ma forse, oggi possiamo chiamarci con i nostri veri nomi, i nostri nomi di battaglia non servono più, la guerra ormai è finita da tanto tempo, o almeno la nostra.

E’ incredibile, che dopo quello che è successo, dopo quello per cui abbiamo lottato e sofferto, gli uomini ancora combattono e si uccidono per motivi di interesse e predominio. Le parole libertà e pace calpestate in nome di pochi uomini che aspirano al potere.

Ma non ci sarà mai pace e libertà se queste parole non nasceranno dentro i cuori di tutta l’umanità, se non impareremo ad amare noi stessi e di conseguenza tutti gli altri, dovremo imparare che siamo tutti dipendenti e legati gli uni agli altri e che ognuno di noi è parte del nostro pianeta e di tutto l’universo.

(Irma) Com’è tutto tragicamente vero Ena, ma perché dopo tanto tempo ci ritroviamo qui, oggi a parlare ancora una volta di guerra

(Ena) Sono queste persone, non sono tante, ma per loro ricordarci è ancora importate e il ricordo delle nostre vite in fondo potrebbe essere un piccolo passo verso un mondo migliore.

(Irma) lo spero tanto. In fondo non ci siamo mai conosciute a fondo, quelle poche parole che ci siamo scambiate alla fontana del paese riguardavano solamente ordini e missioni da compiere. Come ti stimavo Ena, eri la nostra coordinatrice, dipendevo dalle tue decisioni, un lavoro difficile che poteva mettermi in pericolo, ma io mi fidavo di te e sapevo che tenevi alla mia vita quanto alla tua.

Raccontami un po’ di te.

(Ena) Sono nata a Bologna nel 1917, una vita normale, in una famiglia normale che riuscì a darmi un’istruzione che mi portò alla Laurea in lingua e letteratura inglese, così divenni insegnante al liceo scientifico “Righi”.

Non sopportavo il regime fascista ed entrai nell’organizzazione clandestina comunista, dopo la caduta di Mussolini nel 1943 la mia partecipazione aumentò di intensità, venni sfollata a Funo dove tentai di organizzare una manifestazione di donne per rivendicare la fine della guerra. Entrai a far parte dell’ufficio organizzazione del comando militare che un anno dopo si trasformò nel CUMER (comando unico militare Emilia Romagna) che conduceva la guerra di liberazione.

Fu lì che imparai tutto quello che ho trasmesso a te e a tutte le staffette donne del nostro gruppo che instancabilmente percorrevano chilometri e chilometri in bicicletta, a piedi, in corriera, sui camion, portando armi, stampa, materiali pericolosi nelle sporte da massaia, nelle borsette da passeggio, per tutte le strade, sotto i bombardamenti e i mitragliamenti, col continuo pericolo d’essere prese dai nazifascisti, di cadere in una retata, di incappare in una rappresaglia. Impararono come si spara col mitra, con la rivoltella, come si usa una radio trasmittente, come si nasconde una patriota inseguita o come si sopporta la fame se mancano i rifornimenti, come si vive nel freddo se non si può accendere il fuoco, come si curano i feriti, come si chiudono gli occhi ai morti.

Divenni la responsabile di segreteria nella sede di Bologna che era anche la mia abitazione.

Alla Liberazione fui riconosciuta Partigiana con il grado di Capitano, un grande onore per me e per tutte le donne che hanno combattuto.

Questa, in breve, la mia storia di sopravvissuta ad una guerra dura e atroce. Ma io ebbi la fortuna di sopravvivere, cosa che a te Irma non riuscì, quando ti catturarono il mio cuore si fermò, sapevo del tuo valore e speravo che fossi liberata, ma così non fu. Raccontami, ma soprattutto ricorda a queste persone il martirio che hai passato in nome di queste parole che ancora non hanno giustizia: Pace e Libertà.

(Irma) Anch’io nata a Bologna da una famiglia benestante, mio padre durante la dittatura aveva manifestato sentimenti antifascisti.

La guerra aveva risparmiato mio padre, ma mi portò via il mio ragazzo che, militare a Creta, fu fatto prigioniero nel 1943, la nave su cui era imbarcato per il trasferimento in Germania fu bombardata e affondò al Pireo.

Fu dato per disperso: con la mia famiglia facemmo di tutto per rintracciarlo, ma il corpo del mio Federico non verrà mai ritrovato.

Infine ci arrendemmo e ci rassegnammo alla sua perdita. La cagnolina “Lillina” è ciò che mi rimase, fu un dono di Federico fatto prima della partenza, ultimo ricordo del mio amato.

Nel caos dell’armistizio, col dissolvimento delle Forze Armate, cominciai ad aiutare i soldati sbandati e incominciai ad interessarmi di politica aderendo al Partito Comunista.

Dapprima rifornivo di vettovaglie i giovani renitenti alla leva nascosti nei cascinali, mi aiutavano i miei genitori e i miei zii che gestivano dei negozi, poi in breve tempo entrai nel movimento di resistenza nelle fila delle formazioni “Garibaldi”, e qui nacque la nuova Irma sotto il nome di battaglia di Mimma.

Il mio ruolo di staffetta, come tu sai, era importante e pieno di pericoli, trasportavo armi, ordini e tenevo i contatti con le varie squadre di combattenti, ero a conoscenza di molti luoghi e nomi importanti.

Operavo principalmente nella zona di Funo, un paese di campagna di soli mille abitanti, comprese le persone sfollate, che si guadagnerà durante la resistenza l’appellativo di “piccola Stalingrado”.

Tra le persone sfollate c’eri anche tu, col nome di battaglia “Nicoletta” che diventerai la mia coordinatrice delle staffette del Comando Unico Militare dell’Emilia Romagna.

Ricordo ancora con affetto i nostri incontri alla fontana del paese per scambiarci informazioni e ordini.

Nell’agosto del 1944, proprio a Funo, i partigiani uccisero un ufficiale tedesco e un comandante delle brigate nere, iniziarono immediatamente furiose rappresaglie e dopo due giorni, in serata, fui arrestata proprio a Funo, a casa di mio Zio che andavo a trovare frequentemente.

Insieme ad altri partigiani catturati, fui imprigionata nelle scuole di San Giorgio di Piano, ma fui subito tenuta separata dai miei compagni.

Venni trasferita presto a Bologna, venni a saper che i fascisti erano da tempo sulle mie tracce, sapevano parecchie cose su di me ed erano certi di ottenere, facilmente, informazioni preziose.

I miei familiari mi cercarono ovunque, nel centro smistamento per i deportati alle Caserme Rosse, in questura e al comando tedesco di via santa chiara 6/3. Sperarono fossi tra i detenuti liberati nell’azione temeraria del GAP (gruppo d’azione patriottica) nel carcere di San Giovanni in Monte a Bologna, avvenuto pochi giorni dopo, il 9 agosto.

Ma nulla, nessuna traccia, nessuno sapeva dare informazioni utili. Ero svanita.

La preoccupazione era tanta, ma nessuno poteva immaginare le tremende sevizie e privazioni che stavo subendo in una stanza oscura, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno.

Furono giorni di tremenda angoscia per la mia famiglia, che terminarono con una tragica notizia. Un’anziana cliente del negozio di Sergio, mio cognato, comunicò alla mia famiglia che il mio corpo esanime era esposto sul selciato, poco distante dalla loro abitazione. Era il 14 agosto del 1944.

Quel giorno il mio corpo venne trascinato, ormai inerte e buttato a terra, con urla piene di odio mi intimarono ancora una volta: “Parla maledetta, per l’ultima volta, parla. Questa è casa tua, lì ci sono i tuoi cari, non li vedrai mai più se non parli”. La cosa, se non fosse stata così tragica poteva essere paradossale, nelle torture subite ero diventata praticamente cieca, nei metodi di tortura adottati dal CAS, la Compagnia Autonoma Speciale comandata dal Capitano Renato Tartarotti era prassi infilare negli occhi dei prigionieri un ago. Comunque quella volta sapevo di essere arrivata in fondo, era arrivata la mia fine, ancora una volta non parlai e i miei aguzzini mi accecarono definitivamente e mi spararono a bruciapelo, terminando lì, sul selciato, la mia lunga agonia. Mi portarono nei pressi del Meloncello, ai piedi della collina e mi lasciarono a terra per un giorno intero a monito di altri partigiani.

Sette giorni e sette notti, i fascisti provarono a farmi parlare, si alternavano uno ad uno, sicuri che una piccola donna sola, non avrebbe potuto resistere alla loro potenza virile. Ma nulla poteva farmi rivelare i segreti che custodivo dei miei compagni, la mia forza è stata la più grande punizione per i miei torturatori.

Morivo all’età di 29 anni.

Rimase solo il triste riconoscimento da parte della mia famiglia, il mio viso era quasi irriconoscibile dopo le botte subite. La perizia legale appurò e confermò quello che era fin troppo evidente, che il corpo era stato soggetto a pesanti torture.

Fui accompagnata dai miei familiari e da qualche amica al Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna dove fui seppellita.

Ero morta, ma vivevo ancora nel ricordo dei miei compagni, il mio sacrificio dava nuova vita e vigore ai sopravvissuti.

Immediatamente il Partito Comunista pubblicò un volantino che venne distribuito illegalmente, che ricordava il mio sacrificio, contrariamente a quello che avevano pensato i miei aguzzini lasciandomi a terra come monito agli altri compagni partigiani, la mia morte diede un impulso a continuare la lotta antifascista.

La 1° Brigata Garibaldi prenderà il mio nome e al termine della guerra, verrò riconosciuta partigiana e decorata con la Medaglia d’Oro al Valor Militare insieme ad altre 18 partigiane.

A Bologna sono ricordata in una lapide nella via a me intitolata, in un Murales alle scuole Bombicci, in via Turati, poco distante dal luogo della mia morte, nel Sacrario di Piazza Nettuno e nel Monumento alle Cadute Partigiane a Villa Spada.

Ho combattuto e sono morta. Ma morendo ho vinto, sorridendo. Un sorriso consegnato alla storia.

Prima di morire sussurrai soltanto una frase:

“Passeranno i morti, ma resteranno i sogni”.

(Ena) Brava Irma, seguiamo sempre la linea del cuore, ognuno di noi provi ad amare se stesso e gli altri, sembra una piccola cosa, ma, seppur piccola, riuscirà a salvare il mondo.

(Irma) E con questo accorato appello vi salutiamo, grate di essere state ascoltate e, soprattutto, ricordate. Un abbraccio forte