(lettura di Susanna Borghi, Ad Alta Voce 2024)
Mi chiamo Vincenzo Martinelli e qui siamo davanti alla mia dimora eterna. Pietro Fancelli che da me apprese l’arte della pittura, la dipinse in tal foggia.
La municipalità bolognese tutta mi commemorò a futura memoria con detta iscrizione latina.
Sono nato a Bologna il 20 luglio 1737 da un certo Giovan Battista e da Maria Maddalena Menghini.
Il 18 gennaio 1748, a neppure 11 anni, rimasi orfano di padre e presi a frequentare lo studio del noto paesaggista bolognese Carlo Lodi che, privo di prole, mi accolse come un figlio.
Ero un giovane dotato di ingegno vivace e attitudine per il disegno e lì cominciai a dipingere paesaggi e vedute che molto erano in voga nel tempo.
Alla scomparsa del mio maestro, ereditai la bottega.
Avevo desiderio di rinnovare la pittura paesaggistica del tempo, traendo profitto dagli insegnamenti del mio maestro.
Non tardai “a lasciarne la maniera e a farmene una mia, propria e personale; desideravo sfruttare quell’acutezza ottica appresa dal mio maestro ma volevo eliminare dalla pittura paesaggistica locale tutte quelle “sognanti” formule rococò e tutti quei colori saturi degli artisti della generazione precedente per andare verso una pittura più moderna.
Cercavo la strada per mettere a punto accorgimenti per alterare completamente la percezione dello spazio; volevo abbandonare quei colori saturi utilizzati nel rinascimento per dare l’idea della lontananza e al loro posto utilizzare colori tenui
Volevo trasformare la prospettiva tutta geometrica dei tempi passati in una prospettiva di atmosfera.
Desideravo superare la pittura muraria di illusione delle ville romane e in tempi meno remoti, anche degli edifici rinascimentali quali ne è un esempio la camera degli sposi del Mantegna: lo spettatore, per percepire la tridimensionalità del dipinto non deve obbligatoriamente cercare la corrispondenza con un unico punto di fuga.
La mia vita si svolse prevalentemente a Bologna: ho sempre vissuto in una casa in via Centotrecento. il 22 ottobre 1768 mi sono sposato con Anna Maria Caterina Foschi, nella chiesa di S. Martino; ho avuto un sol figliuolo, Ignazio, promettente paesaggista, nato il 19 agosto 1770 e morto prematuramente il 22 maggio 1792.
L’anno seguente, persi anche la mia adorata moglie.
Non fui solo un esecutore pittorico e tantomeno un decoratore da bottega, ma partecipai attivamente al dibattito intellettuale e artistico del mio tempo.
Dovete sapere che a quel tempo, in città l’Accademia Clementina era un’istituzione di grande importanza: qui si intrecciavano i legami con le altre Accademie italiane e straniere, si delineavano moderne correnti di pittura, scultura e architettura mantenendo sempre tutta la forza della pittura bolognese del Seicento.
E io diventai parte attiva di questo dibattito, non solo insegnando e avendo ai miei corsi molti allievi, ma ricoprii incarichi importanti come quello di Principe (una sorta di Rettore della nostra università), di Vice Principe e segretario; quando l’Accademia Clementina venne trasformata, sotto il governo Napoleonico, in Accademia Nazionale di Belle Arti, ne fu completamente estromesso.
Tornando alla mia fama di pittore paesaggista: ben presto divenni il capofila di questo genere: diventai famoso in Europa, alcune mie opere furono inviate a Venezia, in Lombardia, a Roma e Parigi, a Londra e Pietroburgo.
A Bologna, la mia poetica pittorica ebbe una delle sue prime manifestazioni nelle grandi tele dipinte a tempera, volute dal Marchese Boschi, per la sua villa detta “la Sampiera”, sul colle di Barbiano, eseguite tra il 1762 ed il 1764.
(Oggi la villa non esiste più perché distrutta durante la seconda guerra mondiale, ma i dipinti sono stati salvati e in seguito acquisiti dalla Fondazione della Cassa di Risparmio dove possiamo ammirarli).
In queste tele, la grande efficacia prospettica è data rapporto tra gli elementi architettonici e quelli naturali; alberi nodosi con le frasche raggruppate in masse davano l’effetto della lontananza, arbusti con foglie assai definite delineavano i piani più vicini; e poi , a dare l’effetto del fresco non doveva mancare l’acqua, in forma di cascatelle, piccoli ruscelli, evidenziati da una rustiche passerelle, e qua e là figure di gente semplice impegnata in occupazioni quotidiane.
Verso i trent’anni mi cimentai anche come scenografo: non solo diventai allestitore di “apparati effimeri e scenografie, soprattutto di boscherecce per i teatri cittadini” come cita il Crespi, ma anche cerimonie pubbliche. Addirittura per le nozze di Ferdinando di Borbone con Maria Amalia d’Austria, celebrate a Parma nel 1769.
La mia pittura piaceva ai nobili e ai benestanti borghesi tanto che portai nelle ricche case del centro città e nelle ville di periferia, tutti i repertori in dotazione della scenografia teatrale e la mia pittura murale divenne una vera e propria moda del tempo.
Non si contano i modi in cui cercavo di instaurare un rapporto tra il vano esistente e la simulazione della natura, per camuffare e ampliare pareti, soffitti e volte. Miscelavo libertà e facevo convivere in un medesimo spazio la natura selvaggia delle “boschereccie”, i giardini eleganti delle “deliziose” e gli artifici prospettici delle “stanze paese” che portavano nel cuore della casa esterni lontani. Volevo rappresentare la serenità, la leggerezza, la lucidezza dell’aria e de’ vapori.
La tecnica pittorica è quella della tempera.
I piani spaziali sono dettati da una partitura luministica degradante verso colori tenui a rappresentare la lontananza, gli elementi della natura prevedono una tavolozza di pigmenti costituiti da terre naturali con dominanti marroni e giallo ocra, ravvivata, qua e là, da quelle note di “verde bolognese”; il “rosso” dei mattoni di Bologna è trasformato in un rosa-arancio e gli elementi architettonici sono definiti come immersi nella atmosfera estiva delle colline intorno alla città.
La mia opera di maggior pregio si trova a Bologna, in quello che oggi é il Palazzo Comunale ed é la stanza detta “La boschereccia”.
La dipinsi per il Cardinale Legato, per il suo appartamento d’ inverno.
Riuscii a rendere uniforme uno spazio irregolare, sia a causa della posizione delle aperture sia per la dimensione delle pareti.
Il Cardinal Legato desiderava uno spazio la cui funzione fosse quella di “giardino d’inverno”, luogo di svago e ricreazione all’interno dell’abitazione, quando il giardino esterno non è fruibile, per la stagione fredda.
Qui non ho potuto rompere la “quarta parete” con il giardino del palazzo per creare un tutt’uno interno/esterno, perché la stanza si trova al secondo piano.
Tuttavia, le finestre della sala affacciano su uno spazio, nel quale oggi sorge la Biblioteca Sala Borsa, ma che al tempo del Cardinal Legato era occupato dall’orto dei semplici: per creare la continuità tra questo “giardino d’inverno” creata l’abituale continuità fra il giardino d’inverno e il giardino vero e proprio ho fatto sì che la vera protagonista della sala fosse l’acqua.
Del resto l’acqua era una protagonista nel paesaggio urbano, con i canali e i piccoli fiumi che attraversavano la città di Bologna e anche nella campagna, spartita da torrenti, fossi, laghetti e maceri.
Altra mia opera che si può ammirare ancora oggi in città è sempre una “boschereccia” che si trova in Palazzo Sanguinetti di Strada Maggiore 34 (oggi Museo Internazionale e Biblioteca della Musica); qui, la pittura rappresenta un berceau delle dimensioni della stanza, con immerse statue ed elementi architettonici.
Altre mie pitture sono a Palazzo Agucchi in Via Santo Stefano e Villa Salina a Castelmaggiore.
Per chi non poteva permettersi la pittura delle pareti ho dipinto grandi quadri, per lo più di forma ovale, per accentuare la visione prospettica come, in quello che oggi verrebbe definito un obiettivo fish eye.
Ho lasciato la mia vita terrena nel 1807 all’età di 70 anni e qui nel chiostro terzo trovò riposo eterno, vegliato dalla Pittura.